Fabbricare Fiducia_Architettura #0 | Un’architettura che.. | Francesco Lipari
Questo testo è stato scritto nel maggio 2020 e fa parte del libro “Fabbricare fiducia” a cura di Giancarlo Sciascia. Il libro presenta una selezione degli spunti raccolti durante il lockdown fra metà marzo e i primi di maggio grazie all’iniziativa di Farm Cultural Park.Disponibile nel bookstore di Rubbettino Editore.
Un paio d’anni fa durante una delle lezioni alla Sou, la Scuola di architettura per bambini di Favara, alla domanda su cosa fosse l’architettura, Lorenzo, uno degli studenti più vivaci e che abita i Sette Cortili (quartiere in cui nasce la Farm Cultural Park), con grande sicurezza e in un perfetto dialetto siciliano mi rispondeva che l’architettura è (si manifesta) quando non hai nulla da fare, «quannu nun ha nenti chi fari». Ero ben consapevole della scarsa reputazione che la mia professione godeva da anni, in Italia e in particolar modo nel Mezzogiorno, ma sentirmelo dire in un modo così deciso e spavaldo da un ragazzino di dieci anni ha impresso nella mia mente una chiara fotografia di quanto fosse urgente la necessità di promuovere l’architettura costruendo una nuova coscienza dell’importante ruolo che questa disciplina riveste nella nostra quotidianità, ancor prima di pensare alla prossima opera da realizzare.
Ho provato tante volte a dare una definizione dell’architettura ma non ci sono mai riuscito. L’ho vissuta, studiata, progettata, realizzata ma nessuna di queste esperienze mi hai mai aiutato concretamente a costruirle attorno un recinto semantico. Sono arrivato alla conclusione che non ci riuscirò mai e, in realtà, sono felice di questo perché l’architettura è proprio come me la immaginavo: una disciplina affasciante che cambia costantemente, influenzata dal tempo e che dà vita ad un progetto che è la somma di tante componenti, spesso sintesi di una coralità di attori. Grazie allora alla sua natura interdisciplinare, e a meno di non chiedere a Lorenzo, sono convinto che non potrà mai esistere una definizione univoca dell’architettura, ragion per cui gli architetti si porranno questa domanda per tutta la vita.
L’emergenza dovuta al Covid-19 sta inaspettatamente delineando un inedito momento di centralità per l’architettura che prepotentemente ritorna, dopo tanti anni, al centro di un dibattito sull’abitare dal momento che finalmente, e quasi unanimemente, gli si riconosce la capacità di essere uno dei primi strumenti in grado di dare risposte immediate alle emergenze e uno dei pochi in grado di raccontare e interpretare spazi, luoghi e paesaggi che mettono in discussione vecchie e nuove abitudini e stili di vita.
Il momento storico che stiamo vivendo è per noi architetti un’occasione senza precedenti per poter riconsiderare le conseguenze delle nostre azioni progettuali: ci eravamo ben adagiati all’interno di una visione semplicistica che slegava l’architettura dagli ecosistemi, deresponsabilizzandola dalle modificazioni (anche le più piccole) che produceva. Abbiamo creduto fin troppo ad un’architettura artificiale, e non parlo di quella delle utopie che a mio avviso dovrebbe essere sempre più incentivata come strumento di ricerca per interpretare scenari futuri e che adesso non sono più così lontani dal concretizzarsi. Mi riferisco, invece, a quell’architettura innaturale che impone modelli patriarcali, maschilisti e capitalistici caratterizzati da un pensiero spesso propagandistico e meramente pubblicitario; a quell’architettura che non ascolta le esigenze di chi i luoghi li vive o li vivrà. Attraverso un lavoro ai fianchi del suo stesso ruolo l’architettura deve mirare a riattivare la sua forza sociale e civile tornando ad essere una disciplina al servizio di tutti, rinnovando la sua essenza rivoluzionaria e politica, cambiando in meglio luoghi e persone e disegnando comportamenti che innescano nuove reciprocità. Come progettisti dobbiamo avere il coraggio di riequilibrare e leggere questo momento drammatico come l’ennesimo (e speriamo ultimo) ammonimento che i nostri ecosistemi ci inviano, mettendo in campo un’architettura calibrata sulle esigenze dei suoi abitanti per riaccendere i riflettori su ciò che è realmente importante e ha senso nelle nostre vite. È un tempo in cui non possiamo più permetterci di dare risposte che scalfiscano soltanto la superficie dei problemi e non possiamo più farlo agendo singolarmente. Occorre mettere in campo un pensiero corale e circolare che rispetti ogni punto di vista attraverso una prospettiva globale che non lasci indietro nessun elemento organico, materiale e immateriale.
Una coralità che durante il lockdown ho avuto modo di approfondire aggregando una personale visione interdisciplinare ad un pensiero circolare frutto di un’intensa riflessione sull’architettura, condivisa per oltre cinquantacinque giorni con centoventi architetti e creativi all’interno del progetto che ho curato e dal nome “Fabbricare Fiducia_Architettura”. Un progetto ideato da Cityvision e Farm Cultural Park attraverso il quale abbiamo provato a dare una risposta alla domanda “come immagini il mondo dell’architettura dopo l’attuale crisi virale dovuta al Covid-19?”.
L’intero progetto ha sollevato gli aspetti più urgenti che legano l’architettura ad una visione olistica che la nostra professione deve necessariamente tornare ad avere.
Attraverso un’intensa e quotidiana lettura dei testi è stato interessante rilevare il climax di intimità che ha accompagnato la loro scrittura. Testi che è possibile suddividere in tre momenti che trasformano sentimenti comuni come felicità e sconforto, desiderio e paura, fiducia e diffidenza in un messaggio positivo per l’architettura del domani promuovendo, allo stesso tempo, una visione interdisciplinare e collaborativa. Ad inizio pandemia i testi, carichi di un sentimento pieno di curiosità e di una parziale consapevolezza del momento, hanno descritto un immaginario fatto di visioni strategiche e d’insieme i cui protagonisti sono stati macro temi come salute, economia, ambiente e futuro (visione globale); per poi entrare all’interno di un momento di disorientamento dovuto all’intensità e alla gravità di una fase di mezzo dell’emergenza virale in cui le notizie dei media si rincorrevano e si sovrapponevano alla stessa velocità con cui si propagava il virus (visione intermedia); per poi addentrarsi in una fase più specifica che tratta argomenti puntuali che riguardano l’ambito urbano e peri-urbano, con un approccio specifico e di settore (visione in dettaglio). Vista la grande mole di contenuti e temi trattati, e la mia volontà di attenermi il più possibile all’idea di un lavoro a più voci, tenterò di raccontare il percorso progettuale utilizzando una metodologia narrativa che si ispira all’idea del Kintsugi, la tecnica giapponese con la quale si ripristina attraverso l’oro un vaso rotto e che metaforicamente rappresenta l’arte di abbracciare il danno e di non vergognarsi delle ferite. Ferite che nel nostro caso sono rappresentate dagli intensi momenti di intimità che hanno accompagnato i testi.
Con un processo inverso ho volutamente rotto il vaso contenente i centoventi testi per poi ricollegarli attraverso un filo narrativo (riconoscibile dal testo sottolineato) caratterizzato da note esplicative che non seguono un sistema numerico cronologico ma legato all’esatta numerazione con la quale i testi sono stati pubblicati sul sito cityvisionweb.com dove è anche possibile ascoltare i testi narrati all’interno dei principali canali podcast.
Il tutto immaginando un’architettura che…
..cura
Ho sempre pensato allo stretto rapporto tra architettura e medicina dal momento che la prima riveste una grande importanza nelle nostre vite in quanto disciplina deputata alla salvaguardia delle città, esattamente come la seconda che, invece, tutela la salute di chi le città le abita. Entrambe si occupano di persone: l’una interviene su un manufatto edilizio, sulle sue strutture, sugli impianti, i rivestimenti e gli spazi che crea; l’altra su un corpo umano, sulle sue ossa, su vene e arterie, pelle e organi. Ad avvalorare questa relazione è l’attuale pandemia che ha confermato l’esistenza di una stretta relazione tra crisi ambientale (spesso colpa dai processi edilizi dell’architettura) e malattie. Nei prossimi anni, infatti, lo spill-over di virus come il Covid-19, dovuto a contatti con animali serbatoio, sarà solo uno degli impatti negativi della crisi climatica sulla nostra salute e, probabilmente, non il peggiore1. Dobbiamo evitare di distruggere gli habitat naturali soprattutto nelle zone tropicali e in quelle ad alta biodiversità perché azioni come la deforestazione aumentano in maniera vertiginosa la probabilità di contatto tra uomo e specie selvatiche (quelle portatrici di virus) e poi tra queste ultime e gli animali domestici che producono cibo35, amplificando così il rischio di nuove pandemie. Ma cura è soprattutto prevenire78 ed ecco che allora è di fondamentale importanza un sistema sanitario diffuso ed efficiente119. È infatti proprio durante la pandemia che abbiamo messo in campo una rete globale di medici che condividono metodologie ed esperienze e che hanno consentito di salvare molte vite5. Abbiamo la grande necessità di un’architettura della prevenzione22 che dovrà orientare lo sforzo progettuale per rivedere profondamente gli assetti funzionali degli ospedali, cogliendo l’occasione per recuperare anche tutti gli ex sanatori per le quarantene e per alloggi di emergenza11.
..re-impara
Il mondo è saturo, è stanco, è sfiancato. Ogni anno esauriamo sempre più in anticipo il budget annuale di risorse che la Terra può rigenerare (earth overshoot) e questo ci deve far capire che viviamo in un mondo limitato e che anche noi, i quanto esseri viventi di passaggio, lo siamo. Mentre c’è chi è impegnato a fare soldi e accresce il proprio benessere, c’è chi mette in atto una controffensiva che mira a pareggiare i conti tra l’essere umano che sfrutta e una Natura che vuole soltanto respirare. Dobbiamo tornare a re-imparare anche ripercorrendo esperienze dal passato19 perché come progettisti ci siamo spinti all’interno di una visione onnipotente che utilizza l’architettura come strumento di una rappresentazione lontana dalle nostre reali esigenze invece di interpretare il territorio attraverso un’architettura che utilizza materiali coerenti e a chilometro zero2. Visione e comportamenti che sono il frutto di un generale egoismo da parte dell’essere umano, che aspira al Superuomo: colui che desidera demolire i propri limiti per diventare idealmente insuperabile104. Viviamo in un’era in cui il consumismo si è appropriato dell’architettura e dei materiali utili a costruirla, che puntano più all’unicità del manufatto che non alla durevolezza nel tempo. Abbiamo assistito inermi di fronte a questa fragilità, e allora bisognerebbe fare un passo indietro, tornare a studiare la materia con un fare da artigiano che ci permetta di imparare a plasmarla di nuovo50. Perché un’architettura che ascolta è un’architettura di qualità, che si ferma, contempla, recepisce e trova le giuste risposte ambientali e sociali47. Siamo, oggi, attenti agli strumenti, alle norme, alle tecniche di rappresentazione e alle nuove tecnologie dimenticando a volte che non è importante quanto si progetta ma cosa si progetta e per chi lo si fa. Quando ci risveglieremo da questo lungo sonno guardiamo intorno a noi, percorriamo strade a caso, rallentiamo e pensiamo, perché, come la situazione che stiamo vivendo ci sta mostrando, non dobbiamo andare da nessuna parte e non abbiamo nessuna fretta. Ora che abbiamo la possibilità di pensare e di vivere ad un ritmo più lento, quando riprenderemo la nostra vita “normale” non dimentichiamoci di questa armonia e facciamo in modo che la città si fidi di noi che siamo i suoi fabbricatori34. Il senso di responsabilità sociale e ambientale sta riportando una buona parte degli architetti ad affrontare il mestiere con umiltà, con un’attenzione verso i più fragili: è il momento di imparare nuovi comportamenti e disimparare quelli che hanno originato gli errori. Non sono i virus l’unico problema33. Sarebbe bello pensare di progettare luoghi che accolgano i nostri movimenti. Paesaggi ibridi, dove umani e non umani si fondono in una colonna sonora completamente nuova, attraverso una continuità fra natura e ambiente costruito, vivente e artificiale, fisico e digitale. Cosa succederà “dopo’? È difficile fare previsioni, ma sicuramente ci porteremo via un nuovo modo di ascoltare la città e la natura, con una maggiore consapevolezza della sua matericità62.
..emoziona
Per far fronte ad uno scenario post pandemico complesso e articolato abbiamo fortemente bisogno di un’architettura che rispetti la nuova prospettiva emozionale delle persone e che agisca sulle loro riscoperte percezioni sensoriali6. Un’architettura che enfatizzi il rapporto fra la realtà fisica e fenomenica in cui è protagonista la materia da un canto e la sua immagine virtuale su rete dall’altro, dove non solo i dati e le forme assumono consistenza di bit ma anche le emozioni, fino alle istanze più spirituali77. Ci stiamo riconoscendo all’interno di una nuova geografia delle emozioni che ha rotto i confini delle nostre individualità, proiettandole in un oltre che ha la parvenza di una collettività unita dal comune senso di sopravvivenza102 e che ripensa a delle architetture altre120. Ciò nasce in qualche modo dalla percezione di una nuova dimensione del vissuto, che ci ha accompagnato durante il lockdown, trama metaforicamente spaziale dell’insieme dei luoghi in cui si fa esperienza e in cui si costruiscono i ricordi, le relazioni e la vita stessa. Le emozioni possono anche aiutarci a guardare alla città con occhi diversi120. L’architettura deve proteggere attraverso il riconoscimento delle emozioni, agevolando nuovi accordi e alleanze tra tutti gli esseri viventi, con progetti di esperienze condivise per costruire insieme una comunità sinergica e attiva40. Parlando di emozioni, anni fa, ho iniziato a raccontare una personale visione dell’architettura caratterizzata da interdisciplinarità e attenzione alle comunità attraverso una ricerca progettuale dal titolo “La città emozionale”. Il suo scopo è riattivare tessuti cittadini compromessi dall’azione umana attraverso la rigenerazione delle principali componenti urbane e naturali, mettendo in campo nuove strategie abitative, la creazione e il posizionamento di architetture immersive utili a riattivare spazi dismessi e il consolidamento di comunità resilienti. La prima fase della ricerca è di analisi e, attraverso l’utilizzo di strategie sociologiche e naturalistiche, consente alla città in esame di rappresentarsi attraverso una nuova mappatura che mette in risalto schemi emozionali ricorrenti e necessità ecosistemiche, grazie alla ricostruzione dei principali meccanismi comportamentali di esseri umani, mammiferi e insetti. Ho immaginato che la somma di una mappatura emozionale (ottenuta attraverso un dispositivo di risposta galvanica, il “bio mapping”) e di una mappatura ecosistemica (ottenuta attraverso un progetto dal nome “bioscan”) può dare come risultato un “Piano Emozionale Generale”, un possibile nuovo strumento urbanistico-amministrativo in grado di esprimere in maniera incrementale le reali esigenze di una città e dei suoi cittadini, regolando soprattutto l’attività edilizia secondo parametri non più legati a valori numerici ma ecosistemici. Queste architetture immersive possono rinnovare il contatto (e il contratto) fra la città e i suoi abitanti producendo uno “Stato Emotivo Minimo”, quella condizione minima affinché il cittadino possa sentirsi sicuro all’interno di un suo personale recinto emotivo e ottenuto attraverso meccanismi di partecipazione attiva che lo fanno sentire parte integrante di un progetto di comunità. Il processo de “La città emozionale” innesca infine dinamiche positive per tutti i cittadini che, direttamente o indirettamente, verranno investiti da intelligenza emotiva e ottimismo operativo.
..si fa politica
L’architettura è sempre un atto rivoluzionario e politico che cambia luoghi e persone, innesca nuove e profonde relazioni e disegna nuovi comportamenti. Ma ci muoviamo all’interno di sistemi economici piramidali e centralizzati che non tengono conto della specificità dei luoghi. Come architetti abbiamo la grande responsabilità di sperimentare nuovi modelli di gestione del nostro territorio che siano autonomi riducendo gli apparati governativi a meri sistemi di gestione della burocrazia. Architettura e politica hanno una reciproca e profonda relazione e per far fronte ad una complessa contemporaneità in cui entrambe dipendono sempre di più da politiche economiche che limitano creatività a vantaggio di speculazione e intrattenimento è plausibile immaginare di strutturare economie decentralizzate da mettere in atto con “Zone Autonome Temporanee” (in inglese TAZ) che non solo eliminano il corporativismo a favore di un vero libero mercato ma permettono agli architetti di guidare le comunità verso forme di vita sempre più autonome anche se questo vorrà dire produrre architetture più effimere ed estemporanee ma meno controllabili3. Di sicuro non potranno essere le norme e le burocrazie generate fino ad ora a proporre un futuro diverso, né tantomeno i comportamenti che tutti noi cittadini abbiamo tenuto fino ad oggi. Abbiamo cercato di ricostruire il futuro con le stesse logiche del passato, plasmando le vere innovazioni che il Novecento ci ha lasciato in eredità verso le prassi quotidiane, logore e insostenibili, del sistema socio economico post industriale65. Occorre applicare meccanismi radicali e romantici perché viviamo in un mondo cinico e opportunista. Dovremmo quasi annullarci e ritornare all’anno zero (nel senso di ripartire da un anno zero interiore), riscrivere quasi il nostro codice genetico ripercorrendo in un breve lasso di tempo un percorso evolutivo corretto che ci faccia arrivare puliti ad una consapevolezza alta e libera da quei vincoli che ci tengono saldamente ancorati a compromessi politici, sociali ed ecosistemici. Viviamo un momento storico che nemmeno i nostri nonni hanno vissuto, in cui si parla di guerra ma guerra non è, in cui si vorrebbe quasi provare come loro la fame per avere una percezione piena del momento che stiamo vivendo ma non possiamo perché i governi non possono crollare e quindi ripariamo alle negligenze con politiche e architetture di sussistenza che non hanno una visione complessiva del problema ma rimandano la soluzione ad un tempo indefinito. Bisogna essere vigili sul rischio che le cose non solo possano ritornare a come erano prima, ma che peggiorino. Il superamento vero di questa fase virale potrà avvenire solo se tutti prenderemo coscienza definitiva che il nostro modello economico di base va cambiato verso modelli di sviluppo economico sostenibili, equi e soprattutto coordinati. La transizione verso modelli di sviluppo economico sostenibili dovrà avvenire nell’immediato e l’architettura dovrà essere il braccio armato di questa operazione. Bisognerà creare luoghi di “rifugio” per includere gli “esclusi”. Solo attraverso il recupero dei luoghi marginali della società, fisici e non, delle periferie e degli spazi pubblici, e solo mettendo al centro i bisogni di tutti gli esseri viventi si potrà ristabilire l’equilibrio economico ed ecologico di cui il nostro pianeta ha bisogno68.
..non ha paura di cambiare
La parola “crisi” risulta molto stimolante. I nostri fratelli ebrei usano la parola “mashber”. Nella lingua yddish significa sia crisi che sedia per partorire: un luogo di nascita quindi. È bello allora pensare alla parola crisi in questa accezione legandola ad una nuova idea di architettura che sta venendo al mondo92. L’architettura, uno dei prodigi più mirabili nella storia dell’uomo, se vorrà sopravvivere e se vorrà continuare ad esprimere culturalmente e moralmente la sua vocazione di cerniera ideale tra paesaggi umani e urbani, sarà chiamata, anche attraverso l’uso consapevole e responsabile delle nuove tecnologie digitali o industriali, ad un completo rovesciamento dei suoi approcci comportamentali, codici funzionali e linguaggi relazionali88. L’architettura oggi è imbrigliata inesorabilmente nella rete delle forme accattivanti, nella ricerca dell’originalità a tutti i costi, nella conquista effimera del “colpo a effetto” e nella spettacolarizzazione del risultato96. È una disciplina che ha e deve avere un ruolo sociale87 e quindi deve ripensarsi98. Per farlo occorre uno slancio propulsivo verso le nuove frontiere della ricerca, nei campi di tutte le scienze del sapere e la rete”, con le sue potenzialità, può contribuire a sviluppare nuovi scenari73. È necessario, in questo momento, pensare a nuove strategie d’intervento affinché l’architettura possa curare le ferite che questo periodo sta creando82. Perché se c’è una cosa che di nuovo stiamo provando è che non sono solo i poveri a vivere in case inadeguate, ma un’importante fetta della società e in particolare quella urbana e rampante100. In futuro, come in ogni epoca, l’architettura dovrà trasformarsi per rispondere alle esigenze della nuova normalità, device e media avranno una parte sempre più importante nei processi costruttivi e i nuovi spazi saranno sempre più dotati di una flessibilità tale da consentire loro di accordarsi a nuovi usi in base alle contingenze del momento99: una disciplina che rappresenta relazioni, proporzioni, connessioni, effetti, il diagramma di tutto69. Sarà un’architettura che nascerà dalle relazioni che gli stessi architetti riusciranno a tessere, perché dopo questa emergenza dovremo tornare a riappropriarci dei luoghi reali, non più digitali, per dialogare, confrontarci e discutere17. La pandemia difficilmente potrà finire con un “punto a capo”, ma molto probabilmente con dei puntini di sospensione…I puntini sono lo spazio nel quale l’architettura si dovrà misurare attorno alle scelte da compiere76. Gli architetti ovviamente saranno i garanti di questo cambiamento anche se al momento, purtroppo, aspirano spesso ad assumere un ruolo demiurgico con la convinzione di poter essere loro stessi gli artefici della trasformazione della città: ci piace pensare di avere le soluzioni a situazioni spesso più grandi di noi89. Dobbiamo tornare a prenderci cura dei piccoli centri80 ed essere in grado di progettare nuove nature dando vita a delle vere e proprie ecologie capaci di innestare nuovi cicli benèfici per gli ecosistemi, in un’ottica di evoluzione dei contesti e secondo un approccio simbiotico81. Se vogliamo sopravvivere professionalmente alle sfide che il mondo ci riserva nel post confinamento, l’azione vitale da intraprendere è quella di uscire dai nostri studi professionali dei bei quartieri e magari aprirli dove la miseria umana è lì da sempre, là dove rischia di ampliarsi con la “metropolizzazione” del pianeta, dove la crisi economica è sempre presente, ed immaginare ascoltando, un mondo migliore13. Il metodo può essere quello di rimescolare gli elementi che conosciamo secondo regole che invece ancora non conosciamo e accettare che questo caos, inizialmente o forse per lungo tempo incomprensibile, è esso stesso il futuro che verrà97. Dobbiamo essere finalmente interessati al reale e a smettere di essere realisti, non confondendo le cause con gli effetti quando ci soffermiamo a riflettere sull’attuale pandemia: le istanze che essa sta liberando nel mondo sono presenti già da tempo, e, grazie alla crisi virale, i nostri occhi hanno ampliato il proprio spettro di percezione, prendendole finalmente in considerazione104. È su queste istanze che dovremo rifondare i principi della nostra disciplina, uscendo dall’intima sicurezza del nostro ruolo di “custodi del contratto spaziale” (Hashim Sarkis) per divenire attivi “compositori di spazi”. L’architettura somiglierà ad uno sguardo. Sarà finalmente la lente con cui l’essere umano vorrà guardare lo spazio per meglio immaginarlo e abitarlo, perché sia casa. A tutti spetta non dimenticarlo, agli architetti disegnarlo36.
..diventa processo
Per troppo tempo abbiamo guardato all’architettura come una disciplina chiusa e fine a sé stessa quando è proprio nella cultura del processo e dell’ibridazione con altre discipline che risiede la chiave per esprimere la sua completezza. Lavoriamo troppo autonomamente condividendo poco, quando invece proprio durante il Covid-19 quei Fab-Lab che fino a ieri non erano riusciti a dimostrare il loro valore hanno prodotto utilissime valvole per i respiratori delle terapie intensive4. I nuovi maker sono solamente l’interfaccia iniziale di questo processo in cui una deriva è chiara: ognuno potrà fabbricare per il proprio fabbisogno in maniera rapida ed economica e l’interazione sarà tra gli scarti industriali riciclati e materiali high-tech, favorendo la collaborazione tra gli artigiani tradizionali e gli artigiani digitali, caratterizzando in maniera anti-ideologica la nuova produzione23. Fortunatamente le possibilità offerte dalla democratizzazione dei sistemi di comunicazione e di quelli di fabbricazione ha anche creato una rete di persone e professionisti riconvertiti all’emergenza43. Ed è proprio in questa elasticità dell’architettura che risiede il suo significato più grande: essere al servizio di persone e luoghi. L´architettura del futuro dovrà mettere da parte le attuali manie di grandezza: sarà piccola, di strada, pensata più che disegnata, a misura di bambini, donne, uomini e animali55. Dovremmo abituarci a realizzare edifici che sappiano, senza rimpianti, trasformarsi in qualcosa di nuovo, che siano smontabili e mobili, versatili e flessibili. Edifici dei quali controlliamo l’origine, il processo di trasformazione e l’uso successivo di ogni materiale ed elemento il più possibile naturali, riciclati, riciclabili e duraturi. Edifici realizzati utilizzando le tecnologie digitali (Design parametrico e CAD CAM) e realizzati con processi in DiY (Do it Yourself) / Autocostruzione per rendere più efficienti i processi progettuali e produttivi e che si alimentino solo con le energie rinnovabili24. Ridisegneremo un patrimonio mescolato di materiale naturale e artificiale, che si confronterà con la coscienza emotiva di ciascuno di noi, il paesaggio e l’innovazione portata dalla robotica, meccatronica, fisica quantistica, in cui il progetto continuerà a essere processo di sintesi avvalendosi dei punti essenziali di: orientamento, piani, colore e ornamento, riscoprendo il valore del suo tempo e del tempo di cantiere58. Quest’approccio al progetto darà vita a spazi fluidi, capaci di accogliere più funzioni contemporaneamente senza perdere il loro carattere peculiare: spazi capaci di modificarsi nel tempo a seconda delle esigenze64. L’architetto adesso più che mai deve occuparsi di disegnare processi più che progetti, provare a cucire nuovi abiti agli abitanti di questo pianeta, forse costruire nuovi abitanti, recuperare cioè il senso più profondo dell’abitare che non è fatto solo di metrica e standards ma di rapporti, evocazione, equilibrio, proiezione, introiezione e relazione117.
..è flessibile
L’attuale trauma che il sistema sociale, economico e culturale sta subendo a causa del Covid-19 ci traghetta all’interno di una condizione in cui l’architettura sarà costretta ad adattare e mutare i propri stili di vita dal momento che la città, teatro di nuovi spillover, potrebbe ammalarsi ciclicamente con il conseguente bisogno di sottoporsi a quarantena per poi essere sanificata e rigenerata. Ci si dovrà dedicare a sviluppare un’architettura quanto più modulare ed elastica possibile per strutture sanitarie, alle quali si dovrà garantire un ampliamento rapido favorendo più capienza, per fronteggiare tali situazioni, allo stesso tempo sarà fondamentale dare una duplice funzione qualora ci sia bisogno di strutture facilmente reversibili come: stadi, palazzetti dello sport, teatri, aree mercato e cimiteri. Occorre immaginare piccoli sistemi urbani autosufficienti, che si adattano alle mutevoli condizioni evolutive, che creano piccole economie adattabili, dando origine ad un nuovo inizio, ad un futuro dove le forme più tradizionali dell’abitare lasciano il posto a modelli sperimentali e a tipologie più aperte e flessibili14. Se i principi saranno la “sensorialità” e la “circolarità” penso a costruzioni leggere, quasi plug-in, che si connettono sia agli edifici esistenti ma anche a terreni vergini senza lasciare traccia sull’ambiente, reversibili, smontabili. Insomma, in una sola parola, una architettura “gentile”15. Questa sarà la nuova sfida che l’architettura sarà chiamata ad affrontare nell’immediato futuro. Un ripensamento degli spazi così come li abbiamo intesi fino ad oggi a favore di configurazioni flessibili e funzioni ibride che portino a concepire edifici e aree aperte capaci di trasformarsi ed adattarsi ad esigenze mutevoli, superando così l’imprevedibilità delle sfide del futuro103. La flessibilità dell’ambiente costruito dovrà diventare il dogma da declinare attraverso lo studio tipologico, i sistemi costruttivi e l’impiantistica. Spazi facilmente ri-configurabili e adattabili per rispondere rapidamente a esigenze imponderabili (come quella attuale)113. L’architettura deve essere libera dalla schiavitù della rigida solidità del suo essere forma-oggetto, per divenire il network-spaziale di un dispositivo relazionale, percepibile tramite l’esperienza della sua realtà corporea. Non più un oggetto, quindi, ma la configurazione spaziale di un logos di connessione tra realtà antropiche, che segue la materia relazionale di un “corpo” gassoso, sempre mobile, aperto, in continua trasformazione, privo di una forma definita, che dà vita ad un’architettura che possiamo definire “architettura gassosa”109. Un buon punto di partenza sono anche le pratiche legate all’urbanismo tattico, un filone dell’urbanistica caratterizzato dalla trasformazione dello spazio pubblico tramite interventi di scala ridotta, breve durata e che necessitano di un budget decisamente limitato; azioni graduali che consentono di valutare un eventuale impatto definitivo e di stimolare i rapporti sociali91.
..interpreta il tempo
L’architettura deve scegliere il presente, unica angolazione da cui osservare il reale, inteso nella duplice accezione di memoria e attesa. Il presente ci pone davanti i limiti di questa perfezione della città che rendono necessario un aggiornamento immediato del dizionario degli elementi fondamentali e l’introduzione di movimenti e usi nuovi che sopprimano il gesto suprematista di uno sterile formalismo a vantaggio di un’arcaica idea di tempo, di una logica all’imperfetto, senza passato né futuro86. A causa di un virus ignoto la nostra realtà s’è rapidamente trasformata in una sorta di romanzo distopico. Sospesi tra un tempo che si dilata e uno spazio che si restringe72 prendiamo atto che in futuro il cambiamento sarà l’unica costante45. Beneficiamo allora di questo temporaneo rallentamento per impostare una nuova strategia per il futuro, che tenga il passo di un mondo che cambia continuamente, senza essere sopraffatti dalla superficialità del pensiero53. Quello che stiamo vivendo è un momento unico. Siamo sospesi nella trasposizione reale della summa rappresentazione del potenziale aristotelico. Siamo in quel preciso lasso di tempo dov’è ancor lecito immaginare che tutto possa accadere, come prima di un grande viaggio o di una nuova partenza115. Percorriamo allora questo nuovo sentiero attraverso un’architettura che non sia la malinconica copia della normalità, ormai alle nostre spalle, ma che reclami con coraggio i traguardi mancati della sua versione precedente. Per farlo occorre abbattere la zona di comfort garantita da distorte routine quotidiane, adottando una visione olistica, permeata dai valori di ecologia ed economia circolare. Ma non sarà sufficiente senza la centralità di educazione e istruzione, per rafforzare cultura e consapevolezza110.
..è più equa
La nostra società è contemporanea nell’accezione di “insediata nel nostro tempo”, ma evidentemente, a causa dell’evoluzione della tecnologia, degli spostamenti e delle interazioni, non conseguentemente adeguata in materia di valori e opportunità106. Dobbiamo riconoscerci come comunità pensante favorendo il dialogo tra generazioni e includendo anche i più giovani nel dibattito contemporaneo tra le anime che compongono questa meravigliosa professione (architetti, urbanisti, conservatori e paesaggisti)16. Oggi la situazione per chi lavora da dipendente in studi di architettura è quella di avere una partita iva e non un contratto; di conseguenza non avere nessun tipo di diritto è diventata la normalità. Sembra quantomeno paradossale che nel 2020, mentre il dibattito ufficiale è rivolto alle modalità smart e fluide del lavoro, esistano ancora questi divari enormi tra lavoratori. Per questo non ha senso concentrarsi sulle questioni legate al dibattito architettonico fini a sé stesse e legate a vecchi concetti quando non sono rispettati e messi in pratica diritti fondamentali per chi lavora51. Finora abbiamo vissuto un’architettura prettamente patriarcale. L’architettura, che anche nel suo sostantivo è femminile, ha la necessità riequilibrare la forte disparità di genere per consentirci di avere un’immagine completa di tutte le voci narranti dell’architettura, soprattutto quelle femminili che, troppo spesso, vengono silenziate perché ignorate. L’architettura post virus, inoltre, dovrebbe anche farsi carico di quei temi e di quegli spazi connessi alla detenzione, consapevole che il recupero di una persona è un tema improcrastinabile di sostenibilità sociale, economica ed ecologica in senso più ampio. Riprogettare spazi in cui le persone – considerate talvolta “bestie” dalle vittime – possano riumanizzarsi, comprendere realmente il motivo della propria condanna e intraprendere un percorso che gli consenta di ritrovare una possibile ricollocazione all’interno della società. Pensare a edifici che non siano la meccanica traduzione di logiche punitive e coercitive – grazie a soluzioni ingegneristicamente efficaci ma spazialmente desolanti – ma anche capaci di stimolare in ciascuno la costruzione di un proprio “dopo”, reale, attraverso azioni concrete da svolgere in spazi adeguati e progettati a quello scopo27.
..educa
Vorrei un’architettura da ricondurre ad una tremenda semplicità, non semplificandola, ma tornando a renderla esplicita, pura, affacciata sulla finestra di un’affascinante complessità verso la quale tendere ma che, nella sua essenza, ci risulta comunque comprensibile. Credo che i bambini siano molto simili a questa descrizione di architettura: siano un’instabile (nell’accezione chimica del termine, e quindi positiva) combinazione fra la tensione verso la scoperta, la crescita e l’apprendimento e il progressivo abbandono di quella purezza e spiritualità con la quale nascono. Educare all’architettura significa allora riscoprire il senso civico e di appartenenza ad un luogo. Valori che ho avuto la fortuna di condividere durante l’esperienza alla Sou, la scuola di architettura per bambini di Favara per la quale è stato ideato un programma didattico dal titolo “Building Better Citizen”, un manifesto educativo legato alle tematiche dell’hackeraggio civico, ovvero quell’insieme di metodi, tecniche e operazioni educative volte a riconoscere, riaccendere e modificare sistemi urbani dormienti. Il tutto portando all’interno della città di Favara processi di innovazione partecipativi che hanno avuto un grande impatto sulla cittadinanza e su spazi destinati alla condivisione e alla socialità. Ecco che allora risulta di fondamentale importanza, all’interno di programmi didattici interdisciplinari, introdurre l’architettura nella scuola, non solo come studio tecnico, ma come forma simbolico-culturale che, per mezzo del progetto, metta in evidenza i nuovi valori e rappresenti l’architettura come progetto collettivo, come diritto che nasce nella scuola e cresce nella societá67. Negli anni si sono costruiti edifici in grado di accogliere un gran numero di ragazzi, dando per scontato un solo utilizzo, in un periodo dell’anno determinato e mai differibile. Le scuole sono state pensate come edificio a sé, con schemi rigidi e vincolate da un utilizzo che ne impedisce una differente fruizione, schiavi di una progettazione fondata sulla norma tecnica e lontana dalle idee di spazio sociale e luogo di interazione71. Occorre invece promuovere un approccio multidisciplinare nella didattica e nella progettazione delle scuole, facendo alzare più spesso gli allievi dalle sedie e favorendo una diversa circolazione con la formazione di aule e piani didattici più adeguati al loro tempo, abitudini e contemporaneità. Non più la città che entra dentro la scuola ma l’opposto: la scuola esce dalla scuola e va ad incontrare quartieri, territori, spazi culturali diventando protagonista attiva della nostra vita sociale.
..è comunità
L’emergenza imposta da questa pandemia evidenzia ancora di più la necessità di non inseguire forme standardizzate e precostituite ma ridare priorità e valore ai bisogni primari come strumento per un processo di maturazione innovativo e creativo per la ricostruzione di diverse forme di comunità74. Comunità più attente e consapevoli del proprio ruolo guidate da un’architettura capace di educarle, che si immerge nello stile di vita delle persone e le aiuta a dare forma a spazi che accolgono, trasformando comparse passive di una scena che non li appartiene in protagonisti di spazi che sono di tutti, quindi bisognosi delle cure di ognuno di noi25. Dobbiamo lavorare a stretto contatto con le persone, ascoltare di più, e iniziare ad includere i cittadini fra coloro i quali vivono quotidianamente lo spazio che modelliamo. È per loro che il progetto si evolve continuamente e, per stargli dietro, il recente restyling della burocrazia è SMART (Specifica, Misurabile, Arrivabile, Realistica, a Tempo determinato), per garantire alla città il tempo idoneo per rispondere alle nuove esigenze83. Una città che è nel vuoto definito dalle superfici dell’architettura e dove la comunità dei cittadini vive in questo vuoto, dando senso alla città stessa21. Occorre superare la dualità tra il linguaggio tecnico del progettista e le necessità degli abitanti è l’obiettivo di un’architettura che sa ascoltare. Ecco perché, oggi più che mai, è importante riconoscere la capacità dell’azione diretta degli abitanti nei contesti perché faciliterebbe il miglioramento delle condizioni insediative, la riduzione del “peso” ambientale e la ricomposizione di comunità equilibrate con luoghi e risorse sostenibili. Il progettista dovrà avere la capacità di innescare processi di partecipazione, anche attraverso l’ausilio di associazioni o enti dedicati, che facciano riflettere il cittadino e le amministrazioni sul patrimonio storico e culturale dei siti dove si abita, reintegrando nuovamente, dentro la loro coscienza, luoghi perduti o dimenticati, perché non più accessibili54. Un lavoro importante di ascolto, magari col supporto di uno psicologo, responsabilizzando e coinvolgendo gli abitanti che leggono e trasformano in prima persona il proprio spazio domestico111. Dovremmo impegnarci e mettere una parte della nostra vita professionale nell’aiutare le comunità a creare città migliori94. Essere presenti sul territorio con laboratori permanenti, concreti e pragmatici; fare rete, trainare, divulgare ma anche imparare79. Perché l’architettura non si impone ma si condivide10 e come architetti dobbiamo ripartire dal valore delle persone per dare un nuovo valore alla progettazione26. Siamo chiamati a fabbricare il “noi”: piazze, parchi, spazi dove si fa cultura, spazi di aggregazione, spazi dove semplicemente è importante intuire che non c’è bisogno di costruire per fare aggregazione108 promuovendo una riappropriazione guidata da una socialità più consapevole del valore della propria fisicità e della necessità di luoghi dove prendersene cura63. Per gli architetti questa prospettiva potrebbe diventare un’importante sfida37: recuperare la dimensione collettiva del progetto dando un senso al nostro agire quotidiano perché in questa dimensione collettiva risiede la liberazione dell’uomo e la felicità individuale8.
..è post umana
In uno scenario reso così complesso dalla consapevolezza per noi esseri umani di non essere imbattibili, come architetti abbiamo il dovere di continuare a dragare nuovi confini che ci consentano il superamento di un’intelligenza di tipo novecentesco a favore di una logica di tipo sistemico e una gestione transdisciplinare56 continuando a interrogarci sul futuro e cercando di incrociare i dati relativi al nostro vissuto e alle nuove esperienze con l’interpretazione di informazioni provenienti dai media, spesso frammentarie e contrarie, che ci inducono quotidianamente a ricalibrare il nostro punto di vista. Per far questo, come architetti, torniamo oggi, prepotentemente, a interrogarci su come sarà il volto dell’architettura. Farlo ha senso soltanto se abbiamo la possibilità di porci tante altre domande che dovrebbero aiutarci a ripercorrere il suo vissuto e identificare quei meccanismi logori e inceppati che hanno fatto perdere di vista il suo scopo più alto che è sempre stato quello di aiutarci nel processo di connessione con il luogo che ci ospita, la Terra, per la quale siamo soltanto viaggiatori di passaggio. Agire all’interno del dualismo artificio-natura può essere, allora, la chiave per aprire diverse porte progettuali approcciando allo stesso tempo a un modo più olistico e attento di guardare al rapporto fra l’essere vivente, il costruito e la natura. Il nostro battito cardiaco è infatti quello della natura. L’architettura ha un ruolo fondamentale nel processo di ridisegno delle nuove geografie vitali e dovrà assumere le capacità di reinventare la storia a partire da ciò che abbiamo, per scrivere nuovi metodi di regolazione nell’abbassare i rischi e aumentare le valenze di un sistema vivente unico come la Terra40. Consci del distacco che il modello neoliberista ha generato nel rapporto Uomo-Pianeta stiamo favorendo adesso un cambio di prospettiva fondato piuttosto sul paradigma “Mondo come Organismo” per il quale ogni essere è interconnesso ad un altro da un incondizionato legame fisico, psichico e spirituale. È la progettazione “biofilica” il cui scopo è generare ecosistemi equilibrati in cui le specie viventi che ne fanno parte coesistono armonicamente39. La stessa vita sulla Terra si fonda su strette e vicendevoli relazioni tra esseri viventi e questa regola esiste da molto prima che arrivassimo noi, auto nominati Sapiens, solo 250.000 anni fa32. Siamo parte integrante del Pianeta Terra e, come la flora e la fauna, contribuiamo alla sua vitalità. Ma nel momento in cui uno degli elementi che lo compongono si disallinea allora il sistema collassa29. Un nuovo antropocene responsabile ci chiede di utilizzare la nostra intelligenza a servizio dell’ambiente e delle persone, ma soprattutto di ripensare le città come ecosistemi circolari, in equilibrio attivo con le altre specie viventi, in omeostasi con il pianeta9. L’uomo deve rinascere in un habitat fluido e connesso31. Ci dobbiamo ritrovare immersi in un progetto totale dove architettura, letteratura, filosofia, immagini, arti decorative, design, studio del colore e geometrie concorrono a rappresentare un mondo di elevazione psicofisica44. Facendo in modo che quelli che oggi sono i nostri confini diventino nuovi orizzonti90. Occorre decolonizzare l’immaginario dai modelli di consumo che hanno governato gli ultimi due secoli del liberismo economico e che hanno prodotto la crisi ambientale globale che stiamo vivendo. Il cambiamento climatico in corso sta impattando su una molteplicità di aspetti, dimostrando come i diversi livelli che compongono società complesse, come la nostra, siano in realtà interdipendenti e connessi57. Mettiamo in campo una rivoluzione democratica in cui le query (bisogni) dei cittadini definiscono le nuove geografie delle azioni e in cui le città, come un motore di ricerca performante e versatile, rispondono prontamente38. Una città “corta”, a portata di gamba, dove i più anziani non debbano morire soli e confinati101. Ci proiettiamo verso nuovi modi di vivere e progettare e capiamo (forse) una volta per tutte l’importanza di un’architettura che amplifichi il suo raggio di azione al territorio e agli ecosistemi, concentrata sul corretto uso delle risorse e un uso consapevole delle tecnologie. Sarà un cambiamento verso la resilienza, frutto di uno sforzo collettivo7. C’è stato un Prima e ci sarà un Dopo. Quanto il Prima è stato miope, tanto il Dopo dovrà essere lungimirante105.
..racconta intimità
Il primo rimedio contro il Covid-19, in fondo (e di fatto), lo hanno generato proprio gli architetti: la nostra casa, quelle – metaforicamente – quattro mura baluardo di resistenza privata, oggi spazio condensato di significati66. Lo spazio domestico ha indossato in modo imperativo le vesti di una città, ospitandone le funzioni di piazza, cinema, museo, palestra, ufficio, biblioteca, scuola48. La casa come scatola dei ricordi49 si è trasformata in un luogo plurifunzionale70. La casa riscopre una certa flessibilità e muta a seconda delle necessità60 mentre l’uso di dispositivi virtuali, finestre digitali che squarciano i confini fisici, ci hanno avvicinati ad una nuova collettività52 donandoci un’occasione per guardarci in profondità116. Abbiamo cercato di reinterpretare lo spazio domestico configurandolo sia come luogo familiare che come luogo sociale18 e ci siamo anche resi conto di quanto sia importante avere dei momenti di vuoto che facilitano i pensieri e le riflessioni sui propri desideri ed aspirazioni30. È soprattutto nuovo il valore che, ora, diamo ad un balcone, ad un terrazzo, alla luce che entra in casa, ad una stanza un po’ più isolata, ad una parete vuota. Quegli spazi, che prima non ci piacevano e che ora cerchiamo di rendere più belli, sono sempre stati lì118. Siamo stati e siamo testimoni di una importante inversione concettuale: città incantate e semideserte vs case piene. Piene di noi. Tutti annidati nelle nostre dimore – micro, macro, più o meno condivise – abbiamo fatto i conti con la dimensione abitativa in un’esperienza del tutto nuova. Seppur con diverse intensità, abbiamo sentito tutti l’esigenza di riadattare lo spazio del quotidiano al nostro corpo, agli umori, al lavoro. Vis à vis con i margini delle nostre abitazioni, siamo stati tutt’uno con le pareti, gli arredi e gli oggetti95. Rifugio di un momento particolare, lo spazio architettonico diventa protagonista delle nostre vite, dei nostri pensieri, dei nostri respiri, dei nostri silenzi42. Ma ci siamo resi conto quasi immediatamente di un dato molto semplice: le nostre case non sono state immaginate e progettate per un uso così intenso, prolungato, ininterrotto20. Finora abbiamo vissuto all’interno di un modello casa che non ha più la struttura e gli spazi per rendersi completamente autonoma, né tantomeno in grado di abbandonarsi completamente all’intorno urbano. Un modello che non ha saputo farsi trovare pronto né per questa crisi né per le altre recenti60. Quando a casa ci si tornava per cenare e dormire la gestione degli spazi risultava essere adeguata ma ora, che abbiamo vissuto la costrizione di restarci per l’intera giornata, quest’organizzazione spaziale ha generato negli abitanti un senso di prigionia28. Dal vivere in casa al convivere con la casa. Non possiamo prevedere come questo influirà sull’architettura del prossimo domani, ma sappiamo che già adesso molte persone iniziano a percepire in modo diverso la propria abitazione, a sentire l’esigenza di reinventare gli scenari che abitiamo, pubblici e privati, e sarà compito dell’architettura ridisegnare la relazione tra le due sfere del vivere84. Durante la pandemia la casa è diventata anche il metro che misura la città in cui la sua architettura è fatta di interni107. Dentro la casa abbiamo anche recuperato il tempo per pensare, per riflettere sulla nostra umana fragilità: siamo mortali, siamo ospiti di un pianeta che trascuriamo e saccheggiamo93. È come se avessimo sviluppato la consapevolezza di aver preso più di una mela dall’albero del nostro paradiso e per questo siamo stati espulsi, condannati a chiuderci nelle nostre case, trasformate in piccole gabbie112. Celle al servizio di una pandemia che, ahimè, attacca gli individui senza discriminazione, evidenziando invece, attraverso la nostra risposta in autotutela, le sommerse disparità abitative. Occorrerà in tal senso pensare soprattutto, come per lo spazio pubblico, al valore sociale ed educativo del design, al suo impiego per la costruzione diffusa di un habitat migliore85. È un’occasione per guardare con senso critico ai luoghi e allo stile del nostro vivere quotidiano46. Oggi, nell’epoca del post-tutto, ci spingiamo ad individuare scenari dello spazio abitativo inconsueti, dentro una nozione antichissima e archetipica della casa, compiendo un’azione opposta e contraria a quella cui eravamo tanto abituati, per un ritorno all’interno. Si fa riferimento al Nòstos, il ritorno a casa, il principio della vita come eterno ritorno12. La casa allora dovrà essere uno spazio in cui le singole identità possano realmente compiersi e attuarsi in un luogo fatto apposta per le propensioni di ciascuno. Ma anche un luogo in cui, quando tutto il dramma che abbiamo e stiamo ancora vivendo finirà, potremo di nuovo accogliere i nostri cari e i nostri amici e in cui possa manifestarsi anche la nostra naturale propensione alla condivisione, alle relazioni sociali e a valori che mai come ora stanno riemergendo e rafforzandosi18. In futuro dovremo confrontarci con uno spazio domestico maggiormente attrezzato alla multifunzionalità41 e avremo sempre più bisogno di case che permettono una maggiore vitalità fuori dai momenti di crisi, ma che allo stesso tempo permettano una maggiore resilienza e salvaguardia della popolazione, evitando l’ombra dell’isolamento sociale60. La speranza è che, la nostra “nuova normalità”, che inevitabilmente dovremo imparare ad accettare, non sia in realtà l’inizio di una strana e surreale deriva del destino che in un futuro obbligherà tutti i contatti tattili e umani a diventare un’attività illegale e sotterranea, nascosta nelle pieghe delle sue architetture61. Ci aspettano molte sfide progettuali e c’è un mondo fisico e immateriale da ricostruire. È lì che ci aspetta, lì, proprio lì. A colori75.
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Title: Fabbricare Fiducia_Architettura #0 | Un’architettura che.. | Francesco Lipari
Time: 1 dicembre 2020
Category: Article
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