Roland Snooks

article and interview by Disguincio & Co 

Nella ricerca contemporanea è sempre più diffuso l’uso di sistemi simulativi basati su agenti. Roland Snooks, uno dei protagonisti del panorama architettonico internazionale, ci racconta in questa intervista le qualità che questi sistemi portano alla progettazione, interrogandosi su quali siano le idee architettoniche dietro queste indagini.

M&M: Un passaggio interessante nell’utilizzo di agent systems a fini progettuali, consiste nell’interpretazione della simulazione, ovvero come tradurre comportamento, posizione, intensità di interazione, in materia di progetto e quindi poi in architettura. Dall’utilizzo di punti che definiscono diverse densità, alla definizione di moduli che si adattano e distribuiscono nel sistema in base alla posizione degli agents, fino alla definizione delle traiettorie. Qual è quindi l’elemento decisionale per determinare quale sarà il linguaggio più idoneo per materializzare il progetto? Come avviene questo passaggio dal comportamento di un sistema alla forma dello stesso? 

RS: L’approccio che ho sviluppato usando tecniche di progettazione basate su agenti, non è un tentativo di tradurre il comportamento astratto, o biologico, di sciami in architettura. Al contrario il mio interesse sta nel codificare o stimolare intenzioni e decisioni architettoniche molto precise, attraverso l’interazione comportamentale di agenti computazionali. L’intenzione qui è di generare un intento progettuale auto-organizzato. Il linguaggio architettonico non è scelto ma è invece una sensibilità emergente. Questa emergenza non è puramente computazionale, invece il linguaggio di un progetto è districato da un processo caotico, un costante avanti e indietro tra strategie progettuali generative e decisioni progettuali più dirette.

M&M: Quando vedo i test sulla Fibrous House, penso: “Wow! Questo è come costruiremo nel futuro”. Strutture leggere, ridondanti, ed elastiche. Qual è però, l’idea di abitare che sta dietro queste architetture, quindi il rapporto tra uso degli spazi e definizione degli spazi? In che modo questo tipo di ricerca è una proposta consapevole di un’alternativa dell’abitare o di tipologie spaziali, future? L’architettura occidentale è tradizionalmente caratterizzata dalla definizione dello spazio tramite l’allestimento di confini netti, questo per ragioni simbolico-istituzionali e ovviamente per ragioni ambientali, come il controllo del proprio ambiente di vita. Reyner Banham in “Architecture of the well-tempered environment” faceva riferimento alle “società che non costruiscono strutture sostanziali, abitano uno spazio i cui confini sono vaghi, riconfigurabili e raramente regolari”. Lavorare con gli agents sembra proprio definire quello strumento progettuale che più si avvicina a questo modo di abitare lo spazio, in cui sistemi multi performanti ed eterogenei dematerializzano il concetto di confine. Qual è quindi il valore dell’involucro (del limite) in un’architettura che esalta delle traiettorie definendo intrecci più che superfici? Quali sono, a tuo parere, le qualità architettonico-spaziali che questo approccio offre alla progettazione? 

RS: Negli ultimi anni sembra che ci sia un crescente entusiasmo in alcuni angoli dell’architettura contemporanea nell’uso di simulazioni basate su moltitudini di agenti per testare il modo di abitare o utilizzare gli spazi. Questo approccio non è per niente generativo dato che si limita a testare o valutare un design proposto, che si basa sull’abilità di simulare in modo accurato le sfumature delle azioni delle persone, che è una rivendicazione dubbiosa persino nelle più rigorose simulazioni di folle.  Il mio approccio non consiste nel considerare gli agenti come persone, ma come architettura. Sono interessato nell’interazione delle decisioni architettoniche e nell’emergenza delle formazioni architettoniche. È vero che il mio approccio architettonico si oppone alla superficie e alla semplice determinazione di elementi architettonici. Questa diffusa caratteristica è parzialmente un’influenza innata nei sistemi complessi e parzialmente un deliberato tentativo di sfidare le gerarchie lineari dell’architettura, quelle che articolano una separazione degli elementi o sistemi architettonici come struttura, pelle e ornamento. Al contrario io sono interessato nella compressione e mutua negoziazione di questi sistemi in una continua geometria architettonica o in una continua materia. Mentre questo lavoro è guidato parzialmente da un interesse concettuale nella negoziazione non-lineare delle decisioni e sistemi architettonici, è guidato anche da una serie di esperimenti formali ed estetici. Un esempio è il continuo interesse nell’esplorare le implicazioni estetiche e le influenze formali di grandi popolazioni di sistemi agente.

M&M: Qual è la sua posizione relativamente al passaggio dalla simulazione ad una “stigmergic fabrication”, quando ovvero la simulazione non si limita alla costruzione della forma ma proprio all’effettiva costruzione dell’edificio? Lei è più incline a considerare la coincidenza tra queste o la differenza? 

RS: Stigmergic fabrication è un termine che ho coniato per descrivere una strategia per la concentrazione di progettazione algoritmica e fabbricazione robotica in una singola operazione. Questa strategia codifica decisioni architettoniche, come i comportamenti macchina che rispondono alle condizioni esistenti, quindi allestendo un ritorno di informazione ciclico tra l’assemblamento fisico e le intenzioni progettuali. Il processo risponde al comportamento del materiale, permettendo al materiale di giocare un ruolo attivo nell’emergenza dell’architettura, più che essere ridotti a mero recettore di forme predeterminate. Le questioni della progettazione algoritmica e della fabbricazione robotica sono molto differenti, ma invece di far anticipare una rispetto l’altra in una sequenza lineare di relazioni, la stigmergic fabrication presuppone una negoziazione non-lineare tra le due.

M&M: Ogni sistema nella sua crescita e trasformazione, incorpora numerosi aspetti: materici, funzionali, strutturali, ecc. In questa sua ricerca, quanta importanza assumono e in che modo influiscono sulle prestazioni del progetto sia a livello strutturale che decorativo? 

RS: L’incorporazione dell’intento architettonico è critico rispetto la formazione per comportamento, non solo nel modo in cui l’edificio opera, ma più fondamentalmente, la codifica dell’intento con processi algoritmici è essenziale per un coerente approccio progettuale più che il processo di agire meramente come un generatore formale astratto. Alcuni di questi comportamenti sono direttamente legati all’operatività del progetto, come l’affastellamento di strutture fibrose che permette di avere stabilità strutturale, per quanto altri comportamenti siano più astratti, qualità emergenti e altre inclinazioni sono districate dalle loro interazioni, più che codificare un preciso intento architettonico.

M&M: Quando mi confronto con l’attività progettuale, faccio affidamento a diverse ossessioni personali, in una tua intervista, hai parlato degli agents definendoli proprio come la tua ossessione. Cos’è per te un’ossessione progettuale, ma soprattutto, in che misura ti proteggi/confronti da essa? 

RS: Sviluppare un approccio generativo comportamentale verso una progettazione architettonica attraverso intelligenza a sciami e algoritmi multi-agente è chiaramente una focalizzazione, se non un’ossessione, che ha occupato il mio lavoro da 10 anni. Tuttavia questo metodo è piuttosto ampio, un approccio generalizzato alla generazione non-lineare di complesse forme e organizzazioni architettoniche. Man mano che queste ricerche si sviluppano, continuano a generare nuove strade di ricerca offrendo nuove opportunità. È inerentemente un progetto senza fine. La Criticità è la protezione contro l’ossessione, nel caso della progettazione generativa questa criticità deve essere al livello dell’artefatto progettato, più che permettere di concentrarla per dissolverla nella feticizzazione del processo progettuale

 

ENGLISH VERSION_________________________________________________________________

M&M: An interesting step in the use of agent systems in the design process, is the interpretation of simulation, in other words how to translate the behaviour, the position, the intensity of interaction in the project and later in architecture. From the use of points that define different densities, to the definition of modules that fit and distribute themselves in the system based on the position of the agents, to the definition of the trajectories. Which is then, the decisional element to determine what will be the most appropriate language to mate rialize the project? How does this transition from the behavior of a system to its form occur? 

RS: The approach wehave developed at Kokkugia¹ using agent-based techniques for design is not an attempt to translate the behavior of abstract, or biological swarms into architecture. Instead our interest is in encoding or seeding very specific, architectural, intentions and decisions within the behavioral interaction of computational agents. The intention here is to generate a self-organised design intent. The architectural language is not one that is selected – it is instead an emerging sensibility. This emergence is not purely a computational one – whereas a project’s language is teased out of a messy process, a constant back and forth between generative design strategies and more direct design decisions. 

M&M: When I see the tests about the Fibrous House, I think: “Wow! This is how we will build in the future.” Lightweight, redundant and elastic structures. What is, however, the idea of inhabiting, behind these architectures, therefore the relationship between the use of space and the definition of the space? In which way is this kind of research an aware proposal of an alternative way to live or an alternative type of space for the future? Western architecture is traditionally characterized by the definition of space through the establishment of clear boundaries, this for institutional-symbolic and of course, for environmental reasons, such as control of the living environment. Reyner Banham in “Architecture of the well-tempered environment” referred to “societies who do not build substantial structures inhabit a space whose external boundaries are vague, reconfigurable and rarely regular”. Working with agents seems to define a design tool that comes closest to this way of living the space, in which multi-performance and heterogeneous systems dematerialize the concept of border. What is then the value of the envelope (the limit), especially in a kind of architecture that enhances trajectories defining interweavings rather than surfaces? What is, in your opinion, the architectural and space quality that this approach provides to the design practice? 

RS: In the last year of two there seems to be a growing enthusiasm within certain corners of contemporary architecture for the use of agent-based crowd simulation to test inhabitation or use. This approach is in no way generative as it merely tests or evaluates a proposed design – this in itself is predicated upon the ability to accurately simulate the nuanced actions of people, which is a dubious claim of even the most rigorous crowd simulations. We are interested in the interaction of architectural decision and the emergence of architectural formations, where agent’s are not consider people but architecture – an approach that resists surface and the simple delineation of architectural elements. This diffuse characteristic is partly an innate bias within complex systems and partly a deliberate attempt to challenge the linear hierarchies of architecture – those that articulate a separation of architectural elements or systems such as structure, skin and ornament. Instead we are interested in the compression and mutual negotiation of these systems within a continuous architectural geometry or matter. While this work is driven in part by a conceptual interest in the non-linear negotiation of architectural decisions and systems, it is also driven by a set of formal and aesthetic experiments. An example of which is the continued interest in exploring the aesthetic implications and formal affects of high population systems.

M&M: What is your position regarding passage from the simulation to a “stigmergic fabrication”, when, in other words, the simulation is not limited to the construction of form but its actual construction of the building? Are you more inclined to consider the coincidence or the difference between these steps?

RS: Stigmergic fabrication is a strategy for the compression of algorithmic design and robotic fabrication in a single operation. This strategy encodes architectural decisions as machine behaviors that respond to the existing condition, hence setting up a feedback loop between the physical assemblage and design intentions. The process responds to the behavior of material, enabling material to play an active role in the emergence of architecture, rather than reducing it to a mere receptor of predetermined form. The issues of algorithmic design and robotic fabrication are very different, however instead of one anticipating the other in a linear sequential relationship, stigmergic fabrication posits a non-linear negotiation between the two. 

M&M: Each system in its growth and transformation, incorporates a number of aspects like matter, function, structure, etc… In your research, what’s the importance of these aspects and how do they affect the performance of the project at both structural and decorative level? 

RS: The incorporation of architectural intent is critical to behavioral formation, not just in the way the building performs, but more fundamentally the encoding of intent with algorithmic processes is essential to a coherent architectural design approach rather than the process acting merely as an abstract formal generator. Some of these behaviors are directly tied to the performance of a project, such as the bundling of structural fibers enable structural stability, rather than other behaviors that are more abstract, emergent qualities and affects are teased out of their interactions, rather than encoding precise architectural intents. 

M&M: When I’m involved with the design work, I rely on various personal obsessions, in a previous interview, you spoke about agents defining them as your obsession. What is a design obsession for you, but more importantly, in which way do you protect yourself against it? 

RS: Developing a behavioral generative approach to architectural design through swarm intelligence and multi-agent algorithms is clearly a focus, if not an obsession over the last 10 years. However this method is somewhat broad – a generalized approach to the non-linear generation of complex architectural organization and form. As this research develops it continues to generate new avenues of research and offers new opportunities – it is inherently an open-ended project. Criticality is the protection against obsession – in the case of generative design that criticality must be at the level of the designed artifact, rather than allowing the focus to dissolve into a fetishization of the design process.

 

1 Kokkugia is an experimental architecture collaborative led by Roland Snooks and Robert Stuart-Smith.

 

www.kokkugia.com

www.disguincio800.com

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Time: 24 ottobre 2012
Category: Article
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Tags: city vision , city vision mag , disguincio & co , Fibrous House , florence , Glossary of musical terminology , italia , mirco bianchini , mirko daneluzzo , Reyner Banham , ROLAND SNOOKS

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